Riflessioni sulla lettura di Kateuan Zifor
Dove siamo quando leggiamo? In quale tempo e in quale spazio ha propriamente luogo il singolare, fragile evento della lettura? Qual è lo statuto della nostra soggettività mentre sul libro, di frase in frase, si mobilitano insieme l’orecchio e lo sguardo, l’immaginazione e la voce?
Una volta un grande scrittore del Novecento, Thomas Mann, ha raccontato una sua esperienza di lettura intrecciandola a un’esperienza di viaggio. Una traversata con Don Chisciotte, il «feuilleton» scritto da Mann nel 1934 dopo aver lasciato la Germania nazista, era appunto il diario della sua prima navigazione verso gli Stati Uniti d’America. Ma sin dall’inizio lo scrittore in esilio aveva preso la sua decisione: ad accompagnarlo in un «viaggio mondiale» doveva essere il «libro mondiale» di Cervantes; e in questo modo «l’avventura dello scriverlo» trovava un corrispettivo nell’avventura, per così dire sdoppiata, «rappresentata dal leggerlo» e dalla navigazione attraverso l’Atlantico, sulla base labile di un piroscafo nelle alterne congiunture della vita di bordo. Di fatto, l’esperienza riflessa dei luoghi del Chisciotte e del suo epos intriso di humour si avvicendava o si confondeva di continuo con i luoghi del lettore, in una poltrona a tettuccio sopra coperta o nel lusso placcato della social hall, tra una conversazione sul tempo e il ricordo struggente della Germania perduta. Ma quando il lettore alzava gli occhi dal libro, ecco che il pathos comico del Chisciotte, con la sua vertiginosa alchimia di avvilimento e esaltazione, pareva riverberarsi nei luoghi circostanti e colorirne la percezione, si trattasse di una partita a shuffle board o dei volenterosi sforzi artistici dell’orchestrina di bordo, tra i segni grigi vanamente dissimulati della Grande Depressione. Intanto, navigando in questo «oceano narrativo», il lettore entrava in contatto con il tempo nascosto ma operante della tradizione o della biblioteca del romanzo moderno, che l’autore in progress della saga di Giuseppe esplorava attraverso le parole di Cervantes per accordarla al proprio disegno inquieto di ritrovare e umanizzare il mito. E alla fine del viaggio, oltre che del libro, mentre tra la nebbia cominciavano a profilarsi giganteschi i grattacieli di Manhattan, nella mente del lettore il volto di Don Chisciotte poteva assumere i tratti alteri ma insieme commoventi di Nietzsche, fra le speranze, le inquietudini, le illusioni di un’Europa turbata alla ricerca di un nuovo umanesimo e di se stessa. Sebbene in un ambito più modesto, fatto di esperienze meno alte e inventive, è lecito credere che qualcosa di analogo accada anche al lettore comune, quando non rinuncia a un ruolo attivo nel proprio spazio storico e esistenziale, nemmeno nel tempo della comunicazione digitale e dei suoi simulacri opulenti. Non c’è dubbio che quando leggiamo le parole di un testo le riempiamo della nostra esperienza. Nel momento in cui leggo, è vero, sono come sospeso in un altrove tessuto di ombre e di fantasmi. Leggendo, calati nella logosfera del testo, ci si può persino sentire, a occhi aperti, immersi in un sogno più vero e più vivo della realtà circostante. E tuttavia questo spazio sono io a costruirlo, per animarlo lo reinvento di continuo partecipando del suo movimento nello specchio attivo dell’immaginazione, come invece non può avvenire con le immagini dello schermo televisivo, implacabilmente imposte a un occhio passivo. Allo stesso modo, mentre percorro le frasi di un libro, pur leggendo in silenzio investo la mia voce, ossia qualcosa che viene dal profondo dell’intimità corporea, anch’essa, come il volto, espressione inviolabile della mia singolarità e diversità: e nel momento in cui si trasforma, quasi sdoppiandosi, per mettersi alla prova della parola altrui, ecco che la voce può scoprire un nuovo aspetto di sé, una forza che non si riconosceva. Come voleva Proust, «on dévine en lisant, on crée», nello stesso tempo in cui si prende contatto con una verità ancora inesplorata del proprio essere. E nondimeno, pur in questo spazio gelosamente solitario e individuale, la lettura non è mai un monologo, ma l’incontro con un altro uomo, che nel libro ci rivela qualcosa della sua storia più profonda e al quale ci rivolgiamo in uno slancio intimo della coscienza affettiva, che può valere anche un atto d’amore. La solitudine diventa paradossalmente socievolezza, entro un rapporto certo fragile come sono fragili tutti i rapporti intensi e non convenzionali, che aspirino a essere autentici. E qui forse, tra il lettore e lo scrittore, si producono lo sguardo, la coscienza, il faccia a faccia di una vera e propria relazione etica. Anche per Thomas Mann leggere il Chisciotte significava alla fine partecipare a una «vita etica superiore» in cui s’affermava «il relativismo di ogni libertà»: ed era il riconoscimento che la libertà attinge il massimo di valore spirituale sullo sfondo di una «vera costrizione», tanto più vincolante in quanto si costituisce «dall’interno», con la consapevolezza acuita che «il molteplice, non il semplice, prepara l’avvenire».Tra gli studiosi di letteratura, oggi, non sussistono dubbi sulla rilevanza dell’esecuzione e della ricezione nel processo della comunicazione letteraria. Ma si deve subito sottolineare che le elaborazioni teoriche e critiche trovano un equivalente tanto più vigoroso e decisivo nel laboratorio degli scrittori, che più e più volte, con accenti singolarmente concordi, hanno riconosciuto nella lettura la prova cruciale del testo e nel lettore un protagonista, di fronte a una letteratura che pone anzitutto delle domande. Uno scrittore della rigogliosa provincia narrativa ibero-americana, Carlos Fuentes, anche lui interprete acuto del Chisciotte come primo «romanzo del lettore» all’alba del moderno, ha affermato che «la tradizione e il passato sono reali soltanto quando vengono toccati, e a volte sottomessi, dall’immaginazione poetica del presente». Anche Borges, mirabilmente, aveva detto quasi la stessa cosa: il libro è un’estensione della memoria e dell’immaginazione e nella biblioteca, fra le sue immagini durevoli e mutevoli, ci ritroviamo in un «gabinetto magico» di «spiriti stregati» che si svegliano quando noi li chiamiamo, fantasmi che tornano a vivere solo in quanto un essere vivo dà loro voce e vita. Un testo è un segno di vita cui si deve continuare a dare vita. In questo consiste il mandato che si affida allo spazio silenzioso della scrittura. E per colui che lo raccoglie si tratta in primo luogo di prendere consapevolezza di questa asimmetria costitutiva, se è vero che l’integrità e la stessa esistenza del testo, la sua possibilità di essere fino in fondo se stesso, dipendono dal lettore, dal contesto che egli riesce ad attivare al confine e a confronto con il potenziale semantico e la logica creativa della parola altrui. Nel suo movimento sui margini d’ombra e di silenzio del testo, l’atto della lettura non può che essere un esperimento sul senso di un organismo verbale. Proprio perché si realizza nel flusso di una voce come timbro, cadenza, respiro, impulso ritmico del corpo, la lettura produce un vero atto interpretativo che verifica l’unione del suono col significato nella temporalità della sua esperienza: quasi poi fosse un racconto, un atto vivo dell’immaginazione. Così nella biblioteca di Babele una scrittura differisce da un’altra meno per il testo che per il modo in cui esso viene letto.
Ma in questa ricerca di un colloquio entro cui alla fine ritrova se stesso, il lettore non dispone dell’arbitrio di manovra di una soggettività assoluta, poiché leggere significa vedere e comprendere nella dinamica inventiva del testo una coscienza diversa, un altro individuo, circoscritto dalla sua posizione, dalla sua prospettiva temporale e culturale. Leggendo, nella mia soggettività rappresento anche un altro soggetto, quasi «due in uno» sperimento la mia stessa identità come movimento e tensione verso l’alterità e la differenza. Ed ecco allora la comprensione nella separazione, con la responsabilità di una risposta tale da mettere in gioco anche colui che risponde. Qui certo appare chiaro che l’estetica dell’interprete o dell’esecutore deve convertirsi in un’etica. Se il senso di un’opera sta nella risposta del lettore, se il lettore è responsabile del suo divenire e del suo rinnovarsi, egli deve insieme conservare quel senso nella sua integrità di soggetto, nella sua differenza che non può essere violata proprio perché vi si incarna una persona. Non resta allora che chiedersi, introducendo qualche ragione supplementare, come si determina la prassi, l’ethos del lettore a contatto con la materia vulnerabile della parola divenuta segno, per scrutare più a fondo, quando un testo viene nelle nostre mani, l’impulso che ci porta ad averne cura e ad esserne solleciti, a prenderlo in custodia per salvaguardarne il senso: in una parola, di là dall’alone semantico riduttivo di una topica desueta, a rispettarlo. Come non parlare di rispetto, se nel testo si riconosce un’epifania dell’altro, una traccia fragile e finita dell’umano? Restiamo con gli scrittori, i quali hanno sempre saputo che lo scrivere è un progetto, un desiderio di colloquio in un misterioso e asimmetrico faccia a faccia. E il discorso può prendere le mosse dalle formule geniali della poetologia romantica tedesca, ove la riflessione sulla lettura fa indissolubilmente corpo con quella sulla forma elastica, eccentrica, interrogativa di un nuovo epos romanzesco nel segno dello humour e del Witz, come in Thomas Mann. Vero è che nei romantici tedeschi, nel loro cammino attraverso un ordine in frantumi, l’avventura dell’invenzione è inseparabile da una strenua riflessione critica e autocritica. Non a caso la loro speculazione lampeggiante tra immagine e pensiero, filologia e filosofia, prende corpo allorché, dopo la secolare vicenda dell’esegesi scritturale, l’ermeneutica moderna sempre più si definisce e s’istituzionalizza come campo irriducibilmente plurale di tensioni e di raffronti, tra ambiti, gerarchie, tradizioni diverse e talvolta in conflitto, rinunciando alla certezza di un testo assoluto. E proprio Schleiermacher poteva descrivere la conoscenza filologica nei termini di una «approssimazione», un movimento sempre incompiuto verso una materia verbale soggettivamente plasmata, che chiede dunque di associare alle procedure esatte del «metodo comparativo» il rischio di un «metodo divinatorio», con una «certezza», alla fine, «più divinatoria che dimostrativa». Sta di fatto che secondo Novalis «il vero lettore deve essere l’autore ampliato». Se lo scrittore è l’origine, il passato ricostruito dell’opera, il lettore si impone quale progetto o postulato per comprendere e riflettere l’appello con cui l’opera si indirizza al collettivo della socialità non meno che al futuro. Sincronizzandosi attivamente con l’energia della parola che lo interpella, sulla traccia o sul confine di un’alterità, il lettore ne realizza il disegno di senso traducendolo nell’originalità inalienabile del proprio presente. E a contatto con i motivi e i problemi di una nuova storia, quella del lettore e della sua risposta creativa, il testo svela dimensioni e profondità sconosciute e imprevedibili del proprio significato. Certo, avvertiva poi Novalis, se è giocoforza riconoscere che «il lettore fa di un libro ciò che vuole», proprio questo coinvolge l’esigenza di «una dottrina logica dei doveri del lettore e del diritto dello scrittore». E su questa stessa lunghezza d’onda si poneva l’altro campione dell’antropologia poetica romantica, Friedrich Schlegel, quando individuava nella lettura, a cominciare da quella del lettore comune, un «impulso filologico» che non è poi altro che «affetto logico», ossia una tensione di ordine propriamente etico a «un leggere infinito infinitamente potenziato», nutrito della convinzione pensosa che «nessuno si conosce, fin quando è soltanto se stesso e non nel medesimo tempo anche un altro». Ancora una volta, quanto più il lettore si sforza di portare verso di sé ciò che si propone di comprendere, arricchendolo con la propria vitalità e la propria esperienza di senso, tanto più lo preserva nella sua integrità e nella sua differenza. Già queste prime indicazioni sottolineano come l’atto della lettura coinvolga impulsi, esperienze morali radicali e vincolanti: quasi il testo fosse un nostro ospite o persino, come è stato detto, un nostro ostaggio. Non si dà vero dialogo col testo senza avvertire la responsabilità dell’altro in sé. Ma a questo punto, vuoto di ogni egocentrismo e di ogni imperialismo, il lettore si ritrova in una singolare esperienza di libertà: non la libertà di un consumatore, ma veramente di un cooperatore, che attraverso la pazienza e l’inquietudine del capire incontra l’altro senza mai annullarlo, nello spazio strutturalmente bifocale di un’autentica tensione conoscitiva. E questo implica il riconoscimento che il testo presenta alla mobile intelligenza associativa dell’interprete dei vincoli oggettivi, un insieme di dati sensibili che devono essere adeguatamente percepiti e compresi iuxta propria principia, nella pienezza e nella particolarità dei loro attributi. Un giusto rapporto con il testo, scevro di presunzione o di volontà di potenza, esige che si restituisca un ruolo primario alla ricognizione intenta ed esatta, quasi dall’interno, dell’intreccio organico tra parola e significato che definisce un testo nella sua singolarità temporale. Per questo Schlegel soggiungeva che la filologia, anche quella inconsapevole o implicita del lettore, dovrebbe infine essere trattata insieme come «scienza rigorosa e pura arte».
Anche l’esperienza letteraria ha infatti una sua interna scientificità. Non per nulla, se si resta nel mondo degli scrittori, anche se in questo caso in abito di professore, Vladimir Nabokov dichiarava nelle sue scintillanti Lezioni di letteratura che un buon lettore «è una combinazione tra il temperamento artistico e quello scientifico» e che egli deve saper unire in sé «la passione di un artista» e «la pazienza di uno scienziato». Basterebbe, per convincersene, volgere per un istante la riflessione all’attitudine dell’attenzione. La letteratura esige attenzione in quanto costituisce il momento inventivo e insieme riflessivo del linguaggio comune, di cui ci fa scoprire la profondità e l’intimità, sin nelle sue zone più oscure, facendolo diventare più umano. È stato affermato più volte che leggere bene significa leggere lentamente, per cogliere una ricchezza e una complessità di significati che si svela soltanto attraverso la tensione. Certo i tempi del clamore e dell’agone simulato, fra i processi suggestivi della civiltà dello spettacolo, sembrano poco propizi all’abito dell’attenzione, che chiede in primo luogo il raccoglimento della solitudine. Eppure a esservi in gioco sono la sollecitudine e la responsabilità interrogativa della coscienza a confronto con un mondo di cose e di esseri vivi, e forse persino l’apertura alla dimensione di senso, insieme trascendente e comune, che riposa entro la cadenza della temporalità, come indicava uno spirito religioso del Seicento,Malebranche, quando affermava: «l’attenzione è la preghiera naturale dell’anima». Ed è la formula riproposta nel nostro tempo, prima che da Paul Celan, da Walter Benjamin, nella sua sofferta, impavida interrogazione delle sorti dell’opera d’arte e dell’impoverimento dell’esperienza nell’epoca della riproducibilità tecnologica e di massa.
Ma l’attenzione conduce anche a un altro termine, di nuovo nella regione comune alla letteratura e alla scienza, «osservazione». Chi legge bene, scruta le parole nel profondo, le percepisce nella loro costruzione, ne coglie le sfumature e le implicazioni, acquista il gusto esatto del particolare e del dettaglio. Per dirla ancora con Nabokov, un buon lettore è colui che riconosce e avvalora i particolari, sapendo che in letteratura idee e concetti generali non brillano se non irradiati dalla luce «solare» dei dettagli. Leggere è anzitutto un percepire dello sguardo e dell’udito, un indugio sui suoni e sui colori della parola; ma proprio questa esattezza d’osservazione nella materialità del testo, fra i suoi particolari, schiude una trama di senso e implica sempre un’esplorazione dell’invisibile, in un’avventura congiunta della sensibilità e del pensiero. Come voleva Virginia Woolf, la saggista incantevole di Come dobbiamo leggere un libro?, la lettura coinvolge insieme «una grande finezza di percezione» e «una ardita larghezza di immaginazione». Più la lettura si definisce come processo percettivo, che chiede di guardare e sentire, e più deve, nello stesso tempo, creare una costellazione di astrazioni e di rapporti, educarsi a vedere degli insiemi, determinando un complesso di unità nascoste. Solo così il libro risulta altra cosa da un dossier di documenti, che risponde semplicemente a una logica aggregativa, per accumulo, senza la tensione a ricordare, a integrare e a costruire che è propria dell’esperienza della letteratura. In quest’ottica, costituirebbe veramente una perdita se la mediazione informatica sostituisse o cancellasse l’esplorazione delle parole e delle cose entro un testo letterario. Nell’individuazione dei suoi elementi e delle sue corrispondenze, delle sue anticipazioni e dei suoi parallelismi, si avvera al suo grado più alto quella che Wittgenstein chiamava «la sensibilità alle connessioni formali». Che poi non è altro che l’atto stesso del ragionare, come attitudine a creare rapporti, a definire somiglianze e differenze, a riconoscere i nodi problematici. Come sosteneva anche un altro grande austriaco, Hugo von Hofmannsthal, il problema non è di sapere molte cose, ma di metterle a contatto, creando nuovi sistemi di relazione. E in fondo questa capacità di stabilire rapporti nuovi, nutrita di immaginazione e di spirito esplorativo, resta ciò che più conta per l’uomo contemporaneo, anche dal punto di vista dei processi oggi emergenti nell’universo economico del lavoro. Non affermava ancora Wittgenstein che una buona similitudine ravviva l’intelletto?
Poi l’esattezza dell’osservazione non abolisce certo il giudizio, anzi lo sollecita a un massimo di forza e di illuminazione critica in rapporto alle istanze e ai problemi del presente, mettendo in gioco tutto l’osservatore, proprio per correlare la lettura a una fattualità vincolante identificata coi dati sensibili del testo, nelle sue sequenze vive di forme, di suoni e di colori. Nella sua esperienza della realtà tra acustica e figurativa del testo, anche il lettore non può che acuire la propria perizia nel mettere in rapporto i fenomeni secondo la loro stessa dinamica interna, scrupolosamente attento ai caratteri che ne definiscono la fisionomia irripetibile di evento unico, ancorché intrecciato di voci e risonanze, di tradizioni e di valori, di codici e di miti. E per questa via egli si approssima quanto più possibile alla sua origine, diciamo pure alla sua nascita, se è vero che nel testo si incarna una creatura, anche se in questa luce pare difficile avvalorare l’idea di una connessione univoca fra il significato originario e la cosiddetta intenzione dell’autore. Più fondato è ritenere che all’intentio auctoris, all’iniziativa che decide l’evento di un testo e lo orienta tra altri testi, spetti al più un ruolo e un valore di prima approssimazione. Ed essa trova un complemento necessario, e indubbiamente una garanzia più accertabile, nell’intentio operis, cioè nel momento in cui questa iniziativa dialogica s’incontra o confligge con la materia sensibile e reattiva della parola, realizzando nella sua densa concretezza l’intreccio interindividuale e interstorico delle forme espressive e dei loro processi di significazione nel sistema aperto della cultura. Così l’oggetto testuale torna a acquisire il volto non comparabile e unico di un altro soggetto, irriducibile a ogni tentativo di equivalenza che non sia quella bachtiniana del dialogo e del suo pluralismo strutturalmente asimmetrico. Più si aderisce ai toni, alle figure, agli intrecci semantici che recano il segno non confondibile di un’alterità nel tempo, e più scatta intensa la sensazione di prossimità che trasforma l’esperienza di uno scrittore in memoria vivente, sostanza di una nuova avventura che si fa dialogo e incontro.
Forse l’etica della lettura trova qui il suo carattere più peculiare: in una esperienza di libertà compresente nel pieno riconoscimento dell’altro, allorché interviene la tensione che Friedrich Schlegel aggregava all’«impulso filologico», alla responsabilità assunta fino in fondo di sperimentare e di rappresentare una voce differente dalla propria. Non fusione degli orizzonti, secondo il principio ermeneutico gadameriano, ma, come insisteva Bachtin, un’esperienza sul confine e del confine, là dove viene in primo piano, oltre al coinvolgimento in un’apertura di rapporto, l’impossibilità di coincidere nel divenire di un processo temporale irreversibile, che sempre chiama in causa l’ethos liberatorio e responsabile dell’«extralocalità». Perciò per Bachtin la comprensione equivaleva a una «co-creazione» e a volte anche a una «lotta», con un’attitudine acuita a sperimentare nella parola altrui la propria energia di raffronto e di invenzione, tanto più creativa e vitale quanto più rispettosa del segno inviolabile della diversità: e può essere anche la «sollicitude, soucieuse de l’alterité des personnes», di cui ragiona penetrante la saggezza di Ricoeur. La verità iscritta in un testo si rivela così un potenziale che cresce nel tempo all’infinito, nell’incontro irriducibilmente interindividuale, imprevedibile, con la realtà vivente dei lettori, con la loro storia plurale di relazioni e di contatti, di preoccupazioni e di interessi, di desideri, nel confronto «incompibile» tra ragioni diversamente fondate di verità. E certo se l’evento della lettura è l’incontro di due solitudini, ognuna di esse risulta popolata da una molteplicità senza termine di voci e di ombre misteriosamente solidali, lungo la trama temporale cui è inevitabilmente legata anche la nostra ricerca di senso nelle parole del passato. La tradizione non è altro che questo sfondo mai univoco né concluso, da percepire responsabilmente ad ogni nuovo attraversamento del testo. Tra i fenomeni umani che rientrano nelle figure della pagina scritta vi è anche la società degli altri lettori nel tempo, con il loro carico di sofferenza e di speranza, che non si può rimuovere senza tradire la propria stessa umanità. E nella lettura, pur attraverso l’errore, nel dissidio delle prospettive e delle decisioni, può annunciarsi il sentimento di un’affinità, di una storicità comune. Come voleva Borges nei modi allusivi del suo stile laconico, quando leggiamo un libro, a confronto con l’enigma di una voce che ci viene dal remoto, nel porci in rapporto con il «tono» del testo è come se leggessimo tutto il tempo che è trascorso dal giorno in cui è stato scritto fino a noi. Anche per Fuentes il lettore incarna sempre una «soggettività collettiva». E può essere allora che quanto più vi s’intreccia un impulso, una motivazione di ordine etico, l’atto della lettura implichi e metta in gioco una nozione complessa di pluralismo, non adattabile alle scorciatoie di un facile relativismo culturale, tanto più nella variante, intimamente autocontraddittoria, di un solipsismo scettico totale, maschera retorica di un desiderio deviato di assolutezza. Vale la pena di rammentare quanto osservava Schlegel in un altro dei suoi aforismi: «senza una totalità etica, il retorico è sofistico». Nel nostro universo della complessità e dell’incertezza rientra senza dubbio il fenomeno di una sconfinata molteplicità di tradizioni che si trovano a convivere in un mondo che, per un altro dei paradossi del presente, sentiamo di colpo più vasto e nello stesso tempo, con i nuovi strumenti della comunicazione elettronica, straordinariamente rimpicciolito. Ma l’economia planetaria, sappiamo, non elimina il dissidio anche sanguinoso degli interessi e delle visioni del mondo, l’ansia travagliata e talvolta intransigente dell’identità. Ciò che si profila è dunque un sistema culturale strutturalmente aperto e fluttuante, in cui confluiscono canoni, valori, comportamenti anche molto differenti e spesso in conflitto e in cui non si può fare a meno di un pluralismo autentico, fondato sullo scrupolo pensoso di ritornare di continuo sulla propria prospettiva parziale, senza abdicare alla propria singolarità ma impegnandola al confronto con il diverso, al gioco molteplice e spregiudicato delle relazioni, che la arricchisce anche attraverso il dissenso. Ora la lettura, con il suo spazio di figure visibili e invisibili, introduce ed educa esattamente a questa conoscenza, a questa compresenza di verità differenti nella pluralità libera delle coscienze. E il tema dell’altro, oggi così vivo nel discorso filosofico e in tante riflessioni avvertite di ordine sociologico, trova un riscontro intenso e forse una specificazione nell’universo del lettore, in un paesaggio multiplo e scosceso di voci e di intenzioni, di relazioni e di differenze, di contrasti, forse anche di aporie, che mette fuori gioco l’ipotesi idealistica di una totalità conciliata, retrospettivamente unanime, e poiché non prevede una sintesi teleologica non può rimuovere la dura fattualità del conflitto, del fraintendimento, della contrapposizione non negoziabile. Allora anche gli eretici e gli sconfitti riacquistano una parte primaria, nel dialogo teso e difficile che scaturisce, dissonante ma vivo, dallo scontro dei punti di vista, dei mondi vitali in cui si incarnano sempre le ideologie. Nel nostro presente strutturalmente policentrico, tra poliglottismo e creolizzazione, alla polifonia dell’esperienza letteraria si correla quella che invade il nuovo cronotopo della storia e che si acutizza e si rinnova nell’occhio del lettore, nel suo movimento irriducibilmente particolare eppure nutrito di sentimento dell’altro, sempre spregiudicatamente aperto alla folgorazione del nuovo, alla scintilla dell’imprevedibile e dell’impensato che può scaturire anche a contatto con le figure di un tempo remoto. Capire significa sempre per il lettore distinguere l’individualità dell’altro entro una struttura dialogica che non ignora la minaccia, la tentazione continua della violenza, nella prospettiva di una società tra eguali che affrontino il loro conflitto inevitabile respingendo l’illusione cruenta delle soluzioni finali e senza ricorrere alla misura arrogante del potere. A questo proposito andrebbe sempre ricordato che già nei primi decenni dell’Ottocento Goethe affermava con lungimirante saggezza che era venuto il tempo di unaWeltliteratur, di una letteratura mondiale nella quale entravano nuove tradizioni e in cui assumeva un ruolo cruciale, alla base del dialogo delle nazioni, il problema della traduzione. Così nell’etica del lettore, delicata e insieme rigorosa, multiculturalismo non equivale a relativismo, poiché alla fine essa giunge proprio alla determinazione di valori umani comuni, differenziati ma insieme solidali, senza dei quali non si può percepire l’altro da sé come compagno della propria stessa avventura. Allo stesso modo, il sentimento profondo dell’appartenenza a tradizioni e forme di vita differenti non vanifica ma anzi avvalora la ricerca eticamente vincolante di un denominatore comune di umanità.
Anche per questo, è da credere, l’e-sperienza della letteratura può continuare a costituire un punto di orientamento pur nel tempo a tratti incoerente o confuso dei nuovi simulacri informatici e del benessere amplificato e in vetrina. Certo essa rimane uno dei luoghi di una mentalità autenticamente liberale, in cui ci si educa al senso vivido degli individui e alla capacità di accogliere nel proprio mondo chi ancora non ne faceva parte. E certo il lettore conserva un proprio margine di libertà eccentrica, di anticonformismo, anche rispetto alle leggi implacabili del mercato: con la consapevolezza della sua funzione primaria all’interno del testo, della cui forza vitale è responsabile in prima persona, egli non può confondersi con l’acquirente di un oggetto di consumo o con il cliente di un grande magazzino. Il libro non informa soltanto né solo intrattiene: è una creatura, che non posso ridurre a una superficie discontinua di stimoli eccitanti quanto effimeri, di istanti consumati in se stessi. Essa anzi attinge il proprio volto più vero se ci si impegna nella continuità organica di un dialogo che cresce nel tempo, sempre sulla traccia di un’origine da riscoprire nel futuro: attraverso la differenza si illumina una affinità, una corrispondenza di forme e di gesti interiori, se si percorre il testo non come un turista, ma come un pellegrino, che nel compiere il suo viaggio cerca anche se stesso e indaga il proprio caos sentendosene responsabile.
Non va infatti dimenticato che il mondo plurale della complessità e del rischio che vediamo ogni giorno intorno a noi è anche in qualche modo dentro di noi, connaturato a ciò che chiamiamo una identità personale, la coscienza del nostro io. Nelle pagine testamentarie delle Lezioni americane, Calvino osservava che noi non siamo se non «una combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni»: un mondo straordinariamente multiforme di ruoli e di comportamenti che, potremmo aggiungere, attinge uno statuto unitario solo nell’impegno laborioso e paziente di coordinare questa molteplicità sulla soglia vertiginosa del disordine e dell’ignoto. La nostra identità non è se non questa armonia precaria e finita, sempre ipotetica, che determiniamo fra le diverse facce del nostro essere nel gioco alterno della vita quotidiana, della nostra formazione e dei nostri ricordi, delle occasioni e degli incontri. E la letteratura è certo uno dei luoghi di questa molteplicità, anche perché nel momento in cui si colloquia con l’io di una poesia o con il personaggio di un romanzo è come se lo si chiamasse a diventare una parte di sé e si fruisse potenzialmente di una vita moltiplicata. Indubbiamente, da questo punto di vista, la riflessione sul lettore mette in forse la nozione stessa di un’esperienza puramente estetica. Nel momento in cui legge, infatti, il lettore introduce con la sua sensibilità e il suo gusto anche il proprio mondo pratico, diciamo pure il suo quotidiano, se l’etica, in ultima analisi, non è che la riflessione quotidiana sui costumi dell’uomo e sulle ragioni che li motivano e li ispirano. L’immaginazione della letteratura propone la molteplicità sconfinata dei casi umani, ma poi chi legge, con la propria immaginazione, deve interrogarli anche al lume della propria esistenza, introducendoli dunque nel proprio ambito di moralità. Anche le emozioni, così come si determinano attraverso la lettura, rinviano sempre a una sfera di ordine morale. Uno scrittore che parla dalla terra martoriata di Israele, Abraham Yehoshua, ha sostenuto con forza che ogni opera artistica che tratti di rapporti umani coinvolge un aspetto morale, in quanto tutte le relazioni umane possono essere valutate secondo categorie morali. Così il mondo della letteratura diventa uno dei luoghi del dibattito sui comportamenti dell’uomo, che mentre postula «un movimento comune di lettura del testo» si ritrova poi nell’occhio di un campo problematico di estrema relatività, giacché «ciò che uno scrittore percepisce come morale o immorale – o persino amorale – in questo o quel comportamento dei personaggi che ha creato non è necessariamente evidente al lettore», fra criteri e giudizi di cui tendiamo sempre più a presupporre e a rispettare la diversità. «Una posizione morale, in ultima analisi, è una posizione personale». E tuttavia l’etica interrogativa e esplorativa della letteratura avvalora l’indagine della molteplicità dei codici morali nella società umana, e sin l’ardua ricerca di un «consenso», purché si abbiano a cuore «le varie e più sottili sfumature». Il pensiero corre per un istante a Ricoeur, alla sua ipotesi di una «sagesse pratique» comune all’essere agente e al lettore in quanto «tout engagement est une réponse». Ma è d’altra parte significativo che in una diversa tradizione di pensiero anche Martha Nussbaum, oggi, rivendichi un ruolo primario all’immaginazione letteraria e al lettore proprio nel quadro di una concezione più ampia e più umana della razionalità pubblica e sin del discorso giuridico: chi ha esperienza della letteratura vive indirettamente molte vite diverse, si nutre di compassione e di desiderio di giustizia, il suo giudizio di spettatore coinvolto è sensibile più di ogni altro alla complessità e all’imponderabile, alle differenze qualitative, alla difficoltà di scegliere e di essere se stessi.
E con l’intelligenza delle emozioni si ripropone, vivido e scrupoloso, l’ufficio critico del discorso letterario nei riguardi dello stesso costume linguistico, specie in un tempo in cui, amplificato dai circuiti televisivi, sembra imporsi un codice insidiosamente omogeneo di stereotipi, per tacere delle formule a effetto della propaganda politica o commerciale (ove, magari, non si esita a sfruttare le virtù dell’arte letteraria…), che dobbiamo dominare, se non vogliamo esserne dominati. Nessuno più degli scrittori ha interrogato la legittimità della parola nella sua duplice funzione di verità e finzione, espressività e artificio, sicurezza e inquietudine, con il rovello che essa può essere trasparenza intima quanto tenebra e menzogna. La parola della letteratura si porta dentro la sua critica, la sua capacità di riflessione. È una parola suggestiva che diventa pensiero, a fronte dell’avvolgente rumore contemporaneo in cui troppo spesso la parola suggestiva che ascoltiamo tende a diventare non-pensiero. Naturalmente, anche quest’ultima può avere un ruolo nell’economia multipla della nostra esistenza. Ma al discorso della letteratura spetta senz’altro la funzione etico-gnoseologica di scrutare nel profondo quello che Gadda chiamava «il vivente polipaio della umana comunicativa» per riconoscere e demistificare la parola che falsifica se stessa obbedendo alla logica dell’impostura o dell’ipocrisia, dell’opportunismo o del potere: non solo vana, ma a volte anche iniqua. «Tutti i pregi di una lingua», ammoniva Karl Kraus, «hanno radice nella morale». E come è stato affermato, la lingua è essa stessa un bene pubblico e politico. Ma anche nell’epoca dell’intimità e della sofferenza esibite e tradite nel teatro stridulo dell’icona spettacolare, il lettore continua a percepire l’acume dell’invisibile e del non detto, tra le ombre e i silenzi del segreto umano chiuso nel palinsesto dell’esistenza, dalla scena profonda dell’io alla vita circostante delle cose.
Ha osservato una volta Ingeborg Bachmann, con la sua intelligenza finissima e torturata, che pur in assenza di ogni mandato e nell’insicurezza di ogni tipo di relazione l’impulso a scrivere non è altro che uno «scatto», una «spinta morale che precorre ogni morale», tutt’uno con il desiderio incoercibile di interpretare e di dare un nome e un senso alle cose, di raggiungere con il linguaggio una nuova capacità di comprensione del reale: le grandi opere della letteratura, prosegue la Bachmann, non nascono né da una volontà di sperimentazione stilistica né dal bisogno di essere moderni, tanto meno di produrre un godimento puramente estetico, ma solo allorché «un pensiero nuovo, con la sua forza dirompente, abbia dato il primo impulso», dove cioè, «prima di ogni formulabile etica, la spinta morale è stata abbastanza grande da concepire e progettare una nuova possibile etica». Perciò ridare al testo il suo valore attivo di enunciazione significa anche sperimentarlo e intenderlo come un momento della prassi, ritrovando nel dialogo con la parola letteraria, al suo grado più alto, la forza liberatrice del linguaggio e il suo impulso nativo verso il possibile, che ha sempre un contesto diacronico. Ed è la lettura, aggiungerebbe Fuentes, che «ci obbliga a renderci conto della nostra immersione nel tempo»: a contatto con l’entità umana che è il testo, in un’esperienza unica della lingua e della forma, riconosciamo in noi le monadi finite di un processo infinito, che si rinnova tra vita, morte e memoria sino a scoprire che «il significato di un libro non è dietro di noi: il suo volto ci guarda dal futuro». Ora come avverte l’antropologia della vita urbana con la voce autorevole di Ulf Hannerz, la memoria è la dimensione temporale di una cultura. E senza concedere nulla al mito ambiguo di un’essenza identitaria da ritrovare e da possedere, può così cominciare il dialogo con i volti del passato, che ritroviamo in noi proprio in quanto diversi, garantiti nella loro libertà di ospiti o di stranieri, con cui sarebbe violenza atteggiarsi da padroni. Anche da questa prospettiva, l’impulso a preservare la vita del testo e a rispettarla corrisponde a un’istanza non già umanistica, ma umana. Ed è anche la condizione necessaria perché il lettore assuma fino in fondo la sua veste di personaggio attivo e esperto, che attraverso la pratica del testo prende coscienza del proprio tempo e del proprio ruolo fuori dal testo, dalla sensualità sonora dell’esperienza verbale alla prassi sensibile dell’intelligenza emotiva.
Come non accade in altri generi di discorso umano, spiegava Josif Brodskij, la parola letteraria ha la proprietà di fondere insieme semantica e fonetica, di aprire dunque spazi inusitati di senso tra il possibile dell’immaginazione e le sofferte certezze del reale, attraverso la mediazione necessaria di un lettore diviso, mentre attende al proprio compito, tra il mondo della sua vita quotidiana e lo spazio sospeso del mondo delle parole: proprio per questo, nello scrittore come nel lettore, «l’estetica è la madre dell’etica» e l’esperienza della letteratura, che vale un «acceleratore della coscienza», costituisce la migliore «polizza di assicurazione morale» di cui una società può disporre, in quanto educazione all’altro nella sua distinzione e nella sua privatezza, attenzione acuita alla sofferenza, esplorazione della «umana diversità e perversità». Perciò la lettura di un libro può equivalere alla scoperta del proprio «volto non comune», pur nell’«uguaglianza della coscienza». Ma qui vale anche l’autodescrizione luminosa e struggente di un altro poeta in esilio, Czesław Miłosz, il quale scriveva mentre era ospite della California, in mezzo alle «scodelline di colore» di una «lingua fedele» da servire e da difendere contro lo «strepito di parole slabbrate», in uno spazio senza confini: «L’utilità della poesia sta nel ricordare / quanto sia difficile restare la stessa persona / perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave, / e ospiti invisibili entrano ed escono». A ben guardare, proprio per non essere illusorie, le fragili certezze della letteratura equivalgono sempre a un’apertura di rapporto, a una saggezza interrogativa che, dall’interno del testo e delle sue vie sempre di ritorno su se stesse, rimanda a una dialogicità che continua anche nel silenzio, nella ricerca di un senso da dare al proprio passato capace di convertirsi in progetto, in decisione del futuro. Così si ritorna alla ricerca, alla co-creazione libera e responsabile del lettore. Nell’esperienza del leggere e nella sua immediatezza fluida ma sempre problematica si mette alla prova con la propria voce anche la propria singolarità, chiamata dalla parola dell’altro a scrutare nell’oscurità della sua storia. E tra le parole, attraverso l’interazione, il rapportarsi reciproco dei loro singoli tratti sensibili, si annuncia la figura profonda su cui si interrogava Wittgenstein, quando, in uno dei suoi frammenti di lettore speculativo, affermava che i problemi della vita restano insolubili finché si pensa di coglierli alla superficie: essi devono essere afferrati nella profondità. Forse leggere e interpretare significa veramente attingere faccia a faccia con il volto percettibile di un testo la sua «cosa interna», il suo progetto di colloquio immerso nel flusso dell’esperienza e dell’esistere.
Chiaro a questo punto che l’etica del lettore, anche quella che si oggettiva e si istituzionalizza in argomentazione critica, non può non scoprire l’inquietudine del proprio limite di certezza totale. La lettura resta alla fine irriducibilmente ipotetica, e lo sforzo dell’interprete si identifica e si avvalora, per ripetere le parole di Schleiermacher, nell’approssimazione di un compito infinito. Se non esistono testi assoluti, non si danno nemmeno letture assolute. Per dirla con Borges, il testo è come il fiume di Eraclito, in continuo mutamento. Certo il lettore non può riconoscersi nel pensiero assoluto dell’autocoscienza o di una totalità monologica, anche sotto le specie superbe del determinismo scientista. Armato solo di istinto esplorativo, con la coscienza della propria fallibilità, egli sceglie per sé l’ordine sempre imperfetto e congetturale delle certezze parziali, delle verità che sono tali proprio per rinviare a un punto di vista che si riconosce limitato nel suo stesso impulso a autotrascendersi, e la cui sola possibilità di convalida e di crescita, di significazione, resta quella del rapporto con l’altro. Così ancora una volta l’estetica della parola si integra e si adempie nell’etica del lettore. Come afferma Zygmunt Bauman, in un orizzonte lontano dal decostruzionismo, è proprio dell’io morale non essere mai sicuro della correttezza dell’interpretazione. E al pari di un altro uomo, anche il testo deve essere considerato in ogni senso inesauribile. Rispettare responsabilmente il testo nei vincoli oggettivi della sua fattualità percettiva significa prendere in custodia un’entità umana in continua metamorfosi, sapendo che la metamorfosi investe sempre anche la nostra figura di lettori, in cammino (o in navigazione) attraverso il linguaggio del testo e quello del reale. Irremissibilmente in via, come si sarebbe detto nel mondo medievale, il lettore può allora spingere lo sguardo attraverso la parola al paradosso vitale di una verità che, senza rinnegare se stessa, diviene e cresce nell’universo a più voci della cultura.
Certo, mai come a contatto con le voci sigillate in segni che compongono la provincia della letteratura, il lettore si incontra e colloquia con parole che nell’esistere ancora ferme davanti a noi, con la loro materialità sensibile e la loro storicità immanente, chiedono insieme di divenire e di mutare, trasformate e redente dalla vitalità della memoria. In pagine di trepida intensità una grande saggista spagnola, Maria Zambrano, ha affermato che la scrittura, quando assume forma letteraria, ha la virtù di trattenere le parole e di difenderle dalla vanità di un discorso effimero che scompare non appena proferito nella nostra vita di ogni giorno. A una dialogicità contingente e magari inautentica che svanisce subito nel tempo subentra allora una dialogicità profonda che, attraverso il rapporto con il testo, si istituisce alla fine tra il lettore e il suo doppio, la figura, cioè, che egli diventa allorché entra in una biblioteca di fantasmi e ne evoca la voce attraverso la sua voce. E qui certo, insieme con la memoria, ritorna anche il suo contrario dialettico, l’ars memoriae appare inscindibile da un’ars oblivionis. Nel presente della lettura e nel suo campo di energia la distanza dal passato si afferma e insieme si nega, mentre si annuncia e s’impone il senso gagliardamente vitale di un’alterità che diventa vicinanza, nucleo intimo di una nuova esperienza che si arrischia nel flusso travagliato della storia. L’oblio, ha affermato Lévinas, restituisce al tempo la diacronia. Viviamo in un’epoca dominata dai nuovi linguaggi mediatici digitali e di massa, con il trionfo dell’immagine e della sua reificazione virtuale. E ciò sembra imporre alla letteratura un nuovo limite, quasi un obbligo di revisione del proprio statuto di valori e delle sue fragili speranze o certezze residue. Ma è poi vero, come ha sostenuto con particolare vigore Fuentes, che se nel sistema culturale contemporaneo la letteratura è diventata periferica, essa può tuttavia trarre nuova forza precisamente dalla sua marginalità, dalla sua ardua consapevolezza di non essere al centro. La coscienza poetica del mondo, è stato detto, si ottiene solo in un modo, mediante l’eccentricità. Ed è ancora Fuentes ad ammonire che soltanto nella parola della letteratura l’informazione diventa esperienza e l’esperienza si trasforma in conoscenza. Se l’uomo ha ancora bisogno di ricordare e di riflettere raccogliendosi su se stesso, se la sua esperienza non si consuma nella distrazione, come avvertiva Walter Benjamin, allora nella pluralità delle sue manifestazioni la letteratura ha ancora un compito da assolvere: ed è l’invito suasivo a non dimenticare se stessi, a indagare il proprio rapporto con l’altro, a guardare nel fondo della parola sino a ritrovarvi il suo linguaggio della prossimità e a sentirne l’eco profonda che invade ognuno di noi, come presenza di un corpo vivo in un mondo vivo che può essere salvezza quanto minaccia, negazione e affermazione, e certo esige il riconoscimento del nostro essere sempre in cammino alla ricerca di un senso, di una figura ove anche il disordine si trasformi in presagio di ordine. La nostra natura di esseri che si raccontano non può esaurirsi solo in uno schermo televisivo, tra i fantasmi dei suoi melodrammi effimeri e i suoi abbaglianti cliché romanzeschi, moderni o postmoderni. Nel silenzio della lettura, in una solitudine che ritrova una comunità di voci solidali e responsabili perché libere e diverse, la letteratura con la forza originaria della parola inventa e pensa, vincolata al tempo e al suo trascorrere inesorabile. Nel suo limite, oggi, sta anche forse la sua vocazione esistenziale, la sua funzione antropologica di trasformare la memoria in esperimento, in costruzione dell’uomo.